Abstract
In questo articolo ci proponiamo di difendere l'affermazione che le teorie giustificative della pena plausibili dal punto di vista psicologico e normativo sono quelle che fondono virtuosamente elementi deontologici (in particolare retributivisti) e consequenzialisti (utilitaristi). In molti casi ordinari, questi punti di vista alternativi convergono facilmente - in pratica, se non in linea di principio - quando si tratta di determinare se, e in che misura, un determinato colpevole debba essere punito. Spesso, infatti, la punizione dell'autore di un reato può soddisfare contemporaneamente fini retributivisti e utilitaristici, come, ad esempio, il ripristino della giustizia attraverso la punizione di chi merita di essere punito e la massimizzazione dell'utilità generale. Nel documento, tuttavia, presenteremo un caso di studio che mostra la tensione che si verifica quando la visione retributivista e quella utilitarista puntano a comportamenti punitivi diversi. Soprattutto in questi casi, ma anche in linea di principio, l'adesione al punto di vista utilitarista potrebbe sembrare l'opzione migliore. L'utilitarismo, infatti, è spesso descritto come più umano e più in linea con una comprensione empiricamente valida dell'azione umana. Allo stesso tempo, le visioni utilitaristiche - siano esse intese nella loro versione "atto" o "regola" - possono essere messe in discussione da preoccupanti obiezioni, tra cui i rischi di capro espiatorio e di esagerazione della punizione. Per evitare tali eccessi, sosterremo che le teorie miste della pena, che fondono criteri retributivisti e utilitaristici, sono da preferire.